25 ottobre, anno del Signore 1415, giorno di San Crispino e Crispiniano.
Sono uno yeoman, un arciere inglese armato di longbow, il temibile arco lungo di tasso. Mio padre e mio nonno erano stati arcieri e il mio bisnonno aveva combattuto a Crecy nel 1346, nella compagine di Edoardo, il Principe Nero.
Mi basta poco per vivere, sono abituato al duro lavoro della campagna, mi trovo a mio agio nei boschi, l’importante è avere a disposizione una buona dose giornaliera di birra. Non indosso armatura, al più un giacco, una specie di giubbotto imbottito, oltre all’arco e a una buona scorta di frecce munite di punta capace di trapassare le cotte di maglia e, in alcuni casi, anche le piastre delle armature, combatto con armi da mischia, scure e scramasax.
Sono un soldato altamente specializzato, ricevo paga doppia rispetto a un fante, mi muovo a cavallo, normalmente con due pony, uno per cavalcare e l’altro per trasportare l’attrezzatura. Tiro con l’arco da quando ero bambino, d’altronde sono ormai più di 100 anni che il tiro con l’arco è un pratica diffusa tra i sudditi di sua maestà, da quando re Edoardo I aveva imposto agli yeomen il continuo allenamento con quest’arma, anche tramite l’incentivo di gare a premi.
Questa mattina, i nostri comandanti ci hanno schierato per la battaglia. Ci sono tre formazioni di uomini d’arme appiedati, intervallati da gruppi di arcieri disposti a cuneo. I lati dello schieramento sono occupati da folti gruppi di arcieri disposti in posizione leggermente avanzata rispetto al grosso del gruppo, in modo tale che la linea assuma un andamento concavo. La distribuzione degli arcieri permette di avere un tiro omogeneo e incrociato su tutto il campo.
Porto la croce di San Giorgio cucita sulla giubba; re Enrico vuole poter riconoscere a prima vista i propri soldati.
Come gli altri miei compagni ho piantato davanti a me un palo di legno, acuminato e inclinato in avanti, che formerà una barriera insormontabile per la cavalleria francese. L’operazione è facilitata dal terreno arato e reso molle dalla pioggia che è caduta copiosa tutta la notte.
Sul suo piccolo cavallo è arrivato re Enrico: non monta un cavallo da guerra ed è senza speroni. Ciò vuol dire che combatterà a piedi con i suoi uomini. Si sposta per tutto il campo, è venuto in mezzo a noi a incitarci alla battaglia.
La vittoria sarà nostra perché Dio e San Giorgio sono al nostro fianco. Ogni soldato si inginocchia, traccia in terra il segno della croce, si porta alla bocca una zolla di terra e la bacia. Ci si affida a Dio, con la promessa di non fuggire. Si grida “Saint George! Saint George! Saint George!” e si è pronti allo scontro.
Dopo aver passato tutto lo schieramento in rassegna, giunto al centro re Enrico scende da cavallo, sguaina la spada e resta come tutti noi in attesa.
C’è un andare e venire di araldi, ma senza arrivare a conclusioni risolutive. Dalla parte opposta, a circa 1100 iarde, possiamo vedere la massa grigia delle schiere francesi, fanti, arcieri, balestrieri e, dietro, la cavalleria pesante. Quanti sono! Tre, quattro volte il nostro numero. Il campo è relativamente stretto e certo hanno dovuto disporsi su più file per schierarsi.
Ma ecco che qualcosa si muove. La grande nobiltà di Francia non ci sta a essere relegata nelle retrovie, a farsi sopravanzare da vili arcieri e balestrieri, e fa a spallate per portare i propri vessilli nelle prime file dello schieramento, scombussolando i piani di battaglia.
Per alcune ore i due eserciti si fronteggiano separati da poco più di 1000 iarde di terreno arato e intriso di pioggia.
Sono ormai le undici e gli uomini delle prime file si siedono, mangiano e bevono con gran vociare. Ma non nel nostro schieramento, noi siamo talmente in pochi che ognuno di noi ha il suo posto in prima fila. D’altra parte siamo a corto di provviste, siamo stanchi, affamati e stremati dalla dissenteria. L’ordine è di non abbandonare le posizioni.
Ma ecco che ci viene ordinato di avanzare. Sfilo il mio palo dal terreno e con i miei compagni e con gli uomini d’arme comincio un faticoso avvicinamento nel fango. Arriviamo indisturbati fino a 270 iarde dalle schiere francesi. Ripianto il palo appuntito frangicarica e mi metto in posizione. Siamo a tiro di freccia.
I francesi non hanno saputo sfruttare il momento di vantaggio, hanno lasciato che ci rischierassimo e non
muovono un passo. Tempo dopo un nobile francese dirà che si sono comportati come quell’uomo invitato da una bella dama nella sua camera: la bella dama si è spogliata, si è distesa sul letto, ha aperto le gambe e lui non ha fatto niente.
È il momento. Sir Erpingham, il capo degli arcieri, lancia in alto il suo bastone, subito si odono gli ordini dei comandanti: “Knee! Stretch!” Tutti gli archi si tendono e lasciano partire un immenso sciame di frecce.
Ora la professionalità ha il sopravvento, non c’è più stanchezza, fame, dissenteria. Incocco una freccia dietro l’altra e tiro senza fermarmi. So che per noi arcieri non c’è riscatto, alla meglio una morte rapida, altrimenti la forca.
La pioggia di frecce ha raggiunto lo schieramento francese, subito i cavalieri provano a inscenare una carica lancia a fianco al grido di “Saint Denis! Saint Denis!”, ma sono frenati dalle condizioni del terreno. Sono continuamente martellati dalle nostre frecce e i cavalli possono avanzare solo lentamente nel fango.
Cadono a centinaia, cavalli e cavalieri. Vengono avanti con una lentezza esasperante e con la visiera abbassata hanno una visibilità alquanto ridotta. I pochi che riescono ad arrivare fino alle nostre file si accorgono solo all’ultimo momento dei pali aguzzi. Cercano di scartare, si impiantano, cadono e sono subito sopraffatti dai nostri armati.
I cavalli feriti disarcionano i loro cavalieri e galoppano impazziti dal dolore, tornano indietro e investono la divisione francese appiedata che sta avanzando. Molti cadono e a causa delle armature e del fango faticano a rialzarsi, sono calpestati, affogano nella motta. Tutto questo sotto un nugolo di frecce.
Colpiti sui lati, convergono verso il centro del campo. Sono così ammassati e schiacciati gli uni agli altri che a fatica riescono a servirsi delle proprie armi. Dopo un’avanzata di 330 iarde nel fango e a testa bassa per ripararsi dalle frecce chi arriva a contatto con le nostre linee è sfinito.
Al contrario i nostri armati combattono come forsennati. I francesi cadono a decine, molti spinti da dietro da chi sopraggiunge inciampa nei morti e trascina a terra quelli a cui si aggrappa. Nessuno organizza o urla ordini, mentre siamo proprio noi arcieri che, finite le frecce, abbandoniamo la protezione dei pali e ci gettiamo sui fianchi dell’armata francese.
Non essendo protetti da armatura, non possiamo affrontare gli avversari direttamente nel corpo a corpo, ma siamo più agili e operando in piccoli gruppi riusciamo ad avere la meglio. Alcuni distraggono con una finta, altri colpiscono con asce e picche fino a far cadere l’armato, per poi finirlo o ferirlo per metterlo fuori combattimento.
È una carneficina. La retroguardia, vista la mala parata, lascia lo schieramento. Nel primo pomeriggio siamo i padroni del campo. La nobiltà di Francia è stata cancellata in poche ore.
Ancora una volta la tattica difensiva dell’umile longbow ha sconfitto l’esuberanza spavalda della nobile cavalleria.
Ho volutamente tralasciato gli antefatti che portarono allo scontro e le conseguenze che ne derivarono, sperando che il lettore venga stimolato nella ricerca. Da parte mia, il leggere un articolo riguardante Agincourt ormai più di trent’anni fa, su una rivista che si chiamava Storia Illustrata, mi ha fatto nascere il desiderio di conoscere il mondo dell’arco nel Medioevo, mentre fino ad allora l’arco per me era rimasto associato alle tribù dei nativi americani delle grandi pianure.
[Wallace]
Immagine di copertina: m