Anche oggi, per l’ennesima volta, mi sono imbattuto in un regolamento per archi storico-medievali. Ancora una volta mi sono trovato a leggere disquisizioni sulla finestra, sulla zeppa (ma che zuppa), sui colori e quant’altro di questo genere.
Poiché mi sento da tempo estraneo a queste cose, mi è sorta una domanda: “Quanta liceità ha questo mio atteggiamento?” Da ciò scaturisce quanto segue: “Perché sono arciere?” Poi: “C’è davvero tanta differenza tra un arciere primitivo e uno iper-tecnologico?”.
Ora, dato per assodato che ogni attività umana viene svolta secondo l’istinto di chi la fa, sono a definire cosa credo sia essere arciere.
Ho vissuto tutta la vita con arco e frecce in mano: dall’infanzia con rami di nocciolo sottesi da fili di ferro e stecche d’ombrello come frecce, al compound con aste di carbonio per poi approdare al mio arco attuale, in corno e tendine con frecce di legno. Posso dire che, tecnologia a parte, non ho trovato differenze nel tiro: sempre una mano impugna l’arco e l’altra, agganciata la corda, la tira verso il volto per poi scoccare lo strale.
In tutti gli arcieri alberga il desiderio di colpire il bersaglio e ritengo che sentire il corpo impegnarsi nello sforzo della trazione, sentire il respiro acquietarsi ed il cuore rallentare in quell’attimo sospeso d’apnea, ci sia la somma dell’uomo divenuto arciere.
Si rievoca il periodo, si usano vesti e utensili somiglianti agli originali, si sceglie di praticare con riproduzioni di frecce ed archi consoni, ma la sostanza rimane la stessa: scocco nella gloria dell’arcobaleno.
[Kö da Fér]